Intervista a Filippo Avalle
Come mai nel tuo lavoro è centrale il tema del labirinto?
La passione per la storia di Minosse e il Minotauro, trasmessami dal mio maestro Gibelli di quinta elementare, poi il gioco avventuroso da ragazzino alla scoperta (proibita) dei sotterranei del Castello Sforzesco di Milano e lo studio coinvolgente dei classici al ginnasio, mi hanno portato a sviluppare nella attività artistica la dimensione labirintica. È diventata una delle caratteristiche fondamentali che contraddistinguono tuttora la conformazione spaziale delle mie opere.
Anche il gioco quindi ha il suo influsso: tu sei della generazione ‘figli del meccano’?
Nella mia generazione il meccano era il gioco preferito da tutti i ragazzi cui piaceva costruire. Per chi non sa e per chi forse non se lo ricorda più, il meccano era costituito da scatole di montaggio con svariati componenti come barre, piastre, profilati, angolari, tutti di varie misure e foggia, in metallo smaltato e forato, montabili e smontabili con bulloni e dadi per realizzare costruzioni di vario tipo, avvalendosi di schemi di montaggio. Ciò che mi attraeva di più era la possibilità di costruire meccanismi semoventi con l’ausilio di piccoli macchinari a vapore. I primi si sono poi sviluppati nelle forme lavorate di metacrilato, i secondi si può dire che sono ora costituiti dall’apparato ausiliare elettrotecnico per l’illuminazione: fibre ottiche, led e celle fotovoltaiche. Poi c’erano altri giochi di costruzioni: modellini di case e di velieri in cartone, di castelli di sabbia e di capanne con rami e corde, ma qui comincio a perdermi in ricordi… Erano tutti giochi che hanno affinato capacità artigianali e di progettazione importanti anche nel lavoro artistico.
Perché è così forte il tuo senso della ‘Bottega’?
Non ho avuto un vero maestro che mi ha insegnato ‘il mestiere’ e che mi facesse da guida. Per questo forse sento maggiormente il bisogno di trasmettere alle nuove generazioni le mie esperienze in campo lavorativo. Il senso della bottega per me non si limita semplicemente a lavorare insieme a una committenza che richiede più “manodopera” o competenze specifiche, ma si estende alla trasmissione di conoscenze in una condivisione di intenti progettuali e artistici non necessariamente unidirezionale (maestro-allievi). Ho avuto la fortuna di lavorare in questa maniera con vari artigiani e professionisti e anche con allievi nel mio atelier e nel laboratorio della NABA con cui tuttora mantengo rapporti.
Cosa significa per te lavorare su committenza?
Tendenzialmente preferisco lavorare su committenza che con il mercato dell’arte, perché la committenza nasce da un dialogo tra committente e artista e l’opera ne è il risultato. Lavorare per committenti che desiderano soddisfare esigenze di immagine tramite un’interpretazione artistica è uno stimolante confronto con nuovi contenuti, oltre che una sfida per saperle rappresentare con un’opera d’arte. Nel mio caso finora ho sempre incontrato committenti aperti e di grande sensibilità, che hanno capito la necessità per un artista di poter agire con libertà di azione e io, da parte mia, ho dato importanza alle loro indicazioni di massima. Un rapporto analogo di reciproco scambio ideale si può però anche trovare con alcuni galleristi – e anche qui mi reputo fortunato nelle mie esperienze al riguardo -. Un buon gallerista non ordina all’artista una produzione seriale in termini di soggetto, numero e dimensioni, ma vede innanzitutto quello che un artista sa fare all’interno di una ricerca personale. Di più: talvolta, in una prima fase, è un investitore che assume poi un ruolo propositivo per il mercato.
Perché sin dall’inizio il tuo punto di riferimento è stato Lucio Fontana?
Da quando Lucio Fontana, squarciando con un taglio la tela, ha segnato il passaggio avventuroso dall’arte moderna a quella contemporanea, mi ha indicato la strada per esplorare uno spazio oltre quello tradizionale. Ho così dato inizio a una difficile ma liberatoria ricerca. La tela tagliata mi ha invitato a superarne la dimensione piana per esplorare uno spazio “oltre”. Non si trattava però di un semplice passaggio alla tridimensionalità della scultura, ma di introdurre una dimensione stratificata che unisse la pittura e la scultura. Una stratificazione con pieni e vuoti, fatta di piani di plexiglas incisi in combinazione con elementi sottilissimi dello stesso materiale collocati tra i vari piani. Lo spazio sempre mutevole creato tramite questa stratificazione dentro la trasparenza e l’opalescenza del plexiglas consente a chi guarda le opere (me compreso) di intraprendere un viaggio di scoperta. Al momento sto esplorando una diversa possibilità di visione data dal “taglio” di Fontana, accettando la “ferita” del piano, e mettendo a nudo gli elementi interni, sagome ricavate col bisturi tra sottilissimi fogli di poliestere. Lo spettatore è quasi tentato di toccarle. Sono di nuovo all’inizio di un altro percorso e non posso anticipare altro.
Vedendo altri tuoi recenti lavori, disegni a pastello, si può parlare di un ritorno alla bidimensionalità?
Sono apparentemente bidimensionali perché eseguiti su un piano, ma anche qui si tratta di una stratigrafia di segni e di sfumature di colori che le conferisce una ben percettibile pluridimensionalità.
Cosa significa “Opera Unica”?
Opera unica sta per l’insieme della mia produzione artistica, tesa a una continua ricerca di una rinnovata integrazione di tutte le risorse della pittura, della scultura, dell’architettura e del light design. Si concentra sulla creazione progressiva di un’opera completa, composta da più sezioni, ognuna delle quali comprende più parti. Le opere di queste sezioni sono tra loro interdipendenti e confluenti, di natura intrinsecamente dinamica ed aggreganti. Sono collegate da tematiche e approfondimenti ricorrenti che fanno da filo conduttore, quali il labirinto, l’architettura visionaria e organica, l’individuo e le dinamiche sociali e, dal punto di vista tecnico, la luce come materia. Con l’Opera Unica non penso a una totalità che si esaurisca nelle intenzioni, o che si chiuda in un insieme enciclopedico, o ancora in una potenzialità infinita e quindi inconcludente. Penso invece a un’Opera che sprigioni dal suo interno un campo di forze e di energia in virtù della sua stessa vitalità e della integrazione delle discipline senza sottrarre nulla ad ognuna di esse.
Il sacro, la spiritualità, la religione sono aspetti con cui il tuo lavoro si confronta. Esiste un rapporto con la dimensione laica, e, se è stato pensato, qual è?
In alcune mie prime opere esisteva già l’attenzione per il sacro e ancora di più per la dimensione spirituale – ad esempio “L’incidente” raffigura un incidente stradale con una composizione classica della Deposizione di Cristo: il richiamo formale religioso era linguaggio utilizzato per narrare un tema non cristologico. Dal 1992 ci sono state poi alcune commissioni come una Crocifissione per la cappella della nave da crociera Costa Allegra, poi per una Via Crucis per la Nuova Chiesa di Montegrosso, e quella per una Ultima Cena in occasione della mostra “Ultime ultime cene” al Palazzo delle Stelline di Milano. Un chiaro contenuto spirituale si trova in una mia piccola opera su Gandhi. Nel mio lavoro, però, il sacro, ma sicuramente dovrei parlare più propriamente di spiritualità, è sempre collegato alla laicità e alla realtà umana contemporanea. Le stazioni della Via Crucis ne sono un esempio, come quando l’immagine della Croce è il risultato dell’intersezione dell’aereo che attraversa la torre a New York.
Quali sono secondo te le opportunità di questa epoca?
La nostra è un’epoca che si contraddistingue per uno sviluppo accelerato e multiforme in campo scientifico e tecnologico. Il problema centrale è però come gestire queste risorse. La cultura e quindi anche l’arte sono strumenti preziosi e determinanti per le scelte che si dovranno fare per il futuro. La politica e il mondo dell’economia dovrebbero prendere in considerazione questo fatto e rifletterci.
Le tue attuali “preoccupazioni” artistiche, quali sono?
Per chi, come me, vive in Europa, in una società che giustamente sempre più si confronta con altre realtà, è essenziale approfondire i temi attinenti agli aspetti della prevaricazione a scapito della libertà di pensiero e dei diritti umani fondamentali. Come artista, la mia scelta formale della tecnica della stratificazione delle immagini offre allo spettatore la possibilità di diventare prima un osservatore poi un libero interprete di queste realtà.